La giornata di un leader debole e le incognite che ci attendono
Telefonata Trump-Putin?
Il 18 marzo per Trump è iniziato male, in Medio Oriente, dopo aver surclassato Netanyahu e aver trattato direttamente con Hamas, la tregua è saltata con un catastrofico numero di morti palestinesi.
Hamas, probabilmente consigliata da alcune potenze regionali che non vedono di buon occhio il piano Trump di trasferimento di palestinesi da Gaza, non ha restituito gli ostaggi israeliani, causando la drammatica risposta di Tel Aviv.
Come se non bastasse, mentre i trumpiani si voltavano dall’altra parte per non vedere il “pacifista” bagno di sangue, è arrivata la doccia fredda della telefonata con Putin, che ha praticamente rifiutato la tregua proposta da Trump, concedendo a quest’ultimo un contentino: la cessazione degli attacchi alle infrastrutture energetiche. E a margine uno scambio di appena 170 prigionieri tra le parti.
Praticamente una misura più utile a Putin che a Zelensky, perché la Russia da mesi si trova costretta a fronteggiare una miriade di disastrosi incendi in centrali e raffinerie colpite dalle ondate di droni ucraini, a danno della logistica russa. Mentre l’Ucraina sta resistendo maggiormente, grazie agli aiuti occidentali, ai lanci contro le proprie infrastrutture.
Putin ha addirittura preteso uno stop agli aiuti militari verso Kyiv, che l’UE non osserverà.
Reazione di Trump?
Com’era prevedibile, nessuna ammissione del mezzo fiasco, ma mezzi comunicati densi di un ottimismo che nelle cancellerie europee non vede nessuno.
Diciamoci la verità, come trapelato anche da una recente intervista al premier finlandese Stubb, nessuno ha il coraggio di dire a Trump che questi tende a sopravvalutare le proprie abilità negoziali, ma bisogna tuttavia accodarsi al presidente USA, essendo l’unica persona oggi al globo in grado di ammorbidire la posizione di Putin senza passare direttamente alle armi, cosa per cui gli europei non sono ancora pronti.
E in questo scenario, il teatro trumpiano può essere considerato utile, permettendo a chi è disorganizzato di raccogliere le proprie forze.
Putin ha intuito la debolezza della sua controparte, e se ne serve per rimandare sine die un’autentica tregua: si pensi alla proposta di tregua sul Mar Nero, anch’essa più utile alla Russia che all’Ucraina. Considerando che dall’anno scorso la Marina russa è stata praticamente silurata e allontanata dalle coste ucraine, grazie ad un paese che in guerra c’è già, anche se non in forma dichiarata: la Gran Bretagna, che nell’operazione ha impiegato aerei spia, intelligence, droni e missili di ultima generazione gentilmente offerti all’Ucraina senza la firma di accordi sulle terre rare.
UE, inglesi, francesi e turchi, con in arrivo la Germania, oltre ad un’altra ventina di paesi, stanno in realtà già lavorando per il “dopo”.
E per “dopo” si intende il momento in cui finirà la favola cecoslovacca dell’anziano Trump, quando questi potrebbe fermare del tutto gli aiuti militari agli ucraini, e i cannoni torneranno a tuonare sul Donbass, ma non necessariamente a favore di Putin.
La posizione euro-turca è chiara, non verrà mai riconosciuta alcuna cessione territoriale a vantaggio di Mosca. Cessioni che peraltro non terrebbero conto della volontà di milioni di ucraini ancora presenti nelle aree occupate.
Trump potrà benissimo convincere Kyiv a firmare un qualsiasi accordo di pace in cui il governo Zelensky potrebbe accettare una cessazione delle ostilità, senza, allo stesso tempo, che gli ucraini riconoscano i territori attualmente occupati dai russi, come evidenziato alcuni giorni fa dall’Independent.
In pratica si parla di un congelamento del conflitto, in cui i veri negoziati non si orienterebbero su questi aspetti, ma sulla divisione della linea di contatto del fronte. Ossia stabilire in quali punti precisi del fronte i due eserciti contrapposti si dovranno fermare. E sarà un lavoro immenso, che riguarderà strade, edifici, villaggi, ponti, viuzze secondarie, centrali elettriche e nucleari, campagne, alberi di pino ed altre pertinenze civili.
Putin prende tempo, perché ha capito che dopo Trump ci sarà la “coalizione dei volenterosi” su cui sta lavorando Londra assieme ai propri alleati. E dovrà vedersela con loro, soprattutto con un Erdogan che potrebbe innescare qualsiasi scintilla come proposito per evadere da una missione di peacekeeping, trasformandola in una vera e propria campagna militare contro la Russia, ma combattuta sul suolo ucraino.
A febbraio, Ria Novosti, un organo della propaganda russa, non si è fatta scrupolo ad ammettere questa possibilità. Però tanto Mosca, quanto le capitali europee non sono pronte ad un confronto diretto. Ecco perché Putin cercherà di massimizzare l’illusoria fase trumpiana con mezze concessioni, più utili a riassestare le forze di fronte ad un futuro carico di incognite.
Come confermato anche dalla BBC infatti, la famosa “coalizione dei volenterosi” è ancora in alto mare e per varie ragioni.
Non è ancora chiaro il numero di soldati che ne dovrebbero fare parte. Si parla di 30mila, poi di 10mila, qualche volta addirittura 200mila coi turchi, ma sinora nulla di concreto.
Ed anche il numero di soldati sarà utile per capire che genere di missione di peacekeeping si intende mettere in piedi.
Di recente l’Associated Press ha confermato da fonti franco-britanniche che la missione, per essere credibile, dovrà inevitabilmente essere in grado di attaccare l’esercito russo qualora questi violasse degli accordi di pace scaturiti dall’azione di Trump. Ma un’operazione simile richiede più uomini e mezzi di quelli sinora emersi dai colloqui preliminari, viceversa si tratterebbe solamente di una missione di “sorveglianza”, volta ad accertare violazioni in alcune città chiave e infrastrutture critiche dell’Ucraina, ma non a reagire, invalidando così il cuore della stessa operazione di peacekeeping. Soprattutto in vista di un probabile e completo disimpegno USA se Kyiv non accettasse cessioni territoriali imposte da Washington per premiare la violazione del diritto internazionale da parte di Putin, come quella della Crimea.
Putin ovviamente non si fida, comprende la posta in gioco e mette sul tavolo la possibilità che le forze euro-turche, presto o tardi, matureranno capacità offensive anche per allontanare l’occupazione russa del Donbass e potenzialmente anche della Crimea, tema caro ad Ankara. Ed ecco perché il Cremlino pone sempre le mani avanti contro la possibilità dell’ingresso di eserciti europei in Ucraina, con o senza un accordo diretto tra gli europei e i turchi sull’effettiva natura della missione.
Oltre il numero di soldati esiste infatti anche la “soluzione balcanica” emersa nel primo giorno del vertice di Londra: istituire una no-fly zone, con paesi NATO che avrebbero un’indiscussa superiorità aerea sulle forze russe, e potenzialmente quindi la capacità di danneggiare quanto basta l’esercito russo per spingerlo a ritirarsi dall’Ucraina e tornare entro i propri confini.
La missione aerea tuttavia potrebbe non essere risolutiva da sola, e per di più trovandosi a contatto con un territorio ben più vasto del contesto balcanico, il che riporterebbe alla necessità di avere anche stivali sul terreno.
Tutte speculazioni e congetture che, speriamo presto, verranno affrontate dai nuovi vertici operativi previsti da Londra coi responsabili delle forze armate alleate, in cui ogni paese offrirà una specifica quota di risorse, intelligence, mezzi e personale. Ma si tratta in ogni caso di una pianificazione che potrebbe richiedere mesi, e la cui ipotetica attuazione potrebbe determinarsi anche nel 2026.
Tutto cambierebbe, è ovvio, se Trump si dimostrasse un leader determinato a tenere testa al Cremlino, come a suo tempo furono uomini come Bill Clinton e Tony Blair verso Milosevic, all’epoca capaci di organizzare una missione NATO con ben mille aerei da guerra sui cieli della Serbia.
Altri tempi, altro contesto.
Attendiamo e osserviamo le prossime mosse.
Adriano Bomboi.
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