Pallywood: alla scoperta del giornalismo di frontiera
“La lode appartiene ad Allah, Signore dei mondi,
il Compassionevole, il Misericordioso,
Re del Giorno del Giudizio.
Ti adoriamo e a Te chiediamo aiuto.
Guidaci sulla retta via,
la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella Tua ira, né degli sviati”.
(Al-Fatiha, “L’Aprente” – Sura I, Il Corano).
Pensate un po, esistono accademici che da anni si sono messi a studiare una nuova forma di guerriglia, quella virtuale, costruita sulla base di bufale. Nel 2005 Richard Landes della Boston University, come ci informa anche Wikipedia, ha coniato il termine Pallywood, che indica la manipolazione delle immagini effettuate dai palestinesi per attribuire, oltremisura, le colpe del conflitto ad Israele. Il fenomeno si riscontra da almeno trent’anni, fin dal 1982, quando Tel Aviv fu occupata nella guerra in Libano. Esistono addirittura spazi web specializzati nell’osservazione del fenomeno, come The Second Draft.
Il tema, con poche eccezioni, è quasi del tutto assente in Italia, ma ha occupato dibattiti fra analisti, e naturalmente anche fra giornalisti con un problema attinente alla rispettiva deontologia professionale: è lecito strumentalizzare la morte per mostrare un conflitto? Oppure: il giornalista deve attenersi alla realtà o può svolgere anche un ruolo partigiano schierandosi per una delle fazioni in campo? Per essere precisi: deve condividere persino la strategia comunicativa della fazione che si occupa di guerriglia virtuale? Perché patteggiare per una delle fazioni in campo è umanamente comprensibile, così come è comprensibile che il divario di forza che pagano i palestinesi rispetto a Tel Aviv induca a legittimare l’abuso della disinformazione. Ma questo si scontra con la professionalità, deformandola in pura faziosità. Quindi i media come devono comportarsi? Fare sensazionalismo? Indirizzare l’opinione pubblica? Domande retoriche per le quali abbiamo già una risposta, perché esistono media schierati in un senso piuttosto che in un altro. Ciò che conta è l’affermazione del pluralismo informativo, affinché il cittadino possa sentire campane diverse per farsi un’opinione. Eppure al giornalismo professionale rimane il dovere della verifica delle fonti, a maggior ragione in un’epoca dove la diffusione dei bloggers e dei social network ha incrementato esponenzialmente l’abuso di immagini prive di alcuna verifica, delle quali non si conosce data, autori, soggetti, luogo e circostanza. E la storia ci insegna che la disinformazione è sempre stata l’arma dei peggiori demagoghi, non ultimo quello nazista.
Sostenere il dovere della verità non significa patteggiare, nel nostro caso, per Israele o per i palestinesi. Chi abbia invaso la terra di un popolo oppresso è chiaro. Significa tuttavia domandarsi perché le centinaia di immagini relative a bambini coperti di sangue provengano per la maggior parte dal conflitto siriano. E magari servirà anche a farci capire per quali motivi un conflitto sia divenuto emotivamente più coinvolgente di un altro, non meno sanguinario di quello in corso in Siria. Solo a questo punto della riflessione arriveremo alla conclusione che il dovere della verità serve ad allontanare lo spettro del cinismo. Quello che ci porta a fare mille manifestazioni per Gaza senza farne una per la Siria. Non esistono morti di serie B.
Adriano Bomboi.
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