Il commento: Da Beirut a Parigi, due giorni di sangue della diplomazia

Di Adriano Bomboi.

Perché attaccare Parigi? Possiamo solo osservare le vicende di politica estera che hanno condotto al massacro di venerdì 13: la Francia aveva in agenda l’imminente visita di Hassan Rohani, presidente dell’Iran, mentre tra il 15 e 16 novembre in Turchia è previsto il G20, in cui si parlerà del tema siriano.
Dopo gli attentati terroristici costati la vita a 128 persone, Rohani ha cancellato la sua visita di Stato, mentre il presidente francese Hollande rinuncerà al G20 (che in sua vece verrà rappresentato da Michel Sapin e Laurent Fabius, responsabili dei dicasteri alle finanze ed agli affari esteri).

Sul piano internazionale abbiamo dunque un Iran che prosegue nella sua politica di mutuo avvicinamento diplomatico all’occidente (seguito agli accordi sul nucleare dei mesi scorsi), mentre si è determinato un avvicinamento tra Ankara e l’Arabia Saudita. In particolare il piano in agenda da parte della Turchia prevederebbe la creazione di una zona cuscinetto, al nord del Paese, verso la Siria, pattugliata da migliaia di soldati. E’ altrettanto chiaro che nell’evoluzione del contesto siro-iracheno la Turchia guarda con sfavore al protagonismo di Teheran e vede nelle componenti territoriali soggette a presenza curda una minaccia alla propria integrità territoriale, temporaneamente mitigata, ma non cancellata, dalla recente vittoria elettorale di Erdogan alla guida dell’ex impero Ottomano.

Dal canto suo la Francia è l’unico Paese dell’Europa continentale (dopo la Gran Bretagna) ad aver avviato bombardamenti mirati in Iraq e Siria; gli attentati di Parigi, compiuti da personale evidentemente specializzato, non possono essere ricondotti ad isolati simpatizzanti dell’ISIS ma a veri e propri “foreign fighters”, magari dotati pure di passaporto francese, con potenziali regie politiche in Asia minore. Questa prospettiva rappresenta un classico dilemma dell’intelligence occidentale, per la materiale impossibilità di fermare un fenomeno di guerriglia a bassa intensità, basato su un nemico invisibile, la cui rappresaglia si determina in atti terroristici dal vasto clamore mediatico. In Francia non si assisteva ad un attacco simile dal 1961, quando nel corso del conflitto d’Algeria l’Organisation armée secrète, che si batteva per impedire l’indipendenza di Algeri dall’ormai disimpegno francese, costò la vita a 28 persone. Mentre il più grave attentato dell’ultimo decennio sul suolo europeo rimane quello avvenuto alla stazione di Madrid nel 2004, con ben 191 morti ed oltre duemila feriti, che comportò l’indiretta caduta dell’allora governo Aznar.

I fatti di Parigi seguono la strage di Beirut di giovedì scorso, dove degli attacchi kamikaze hanno provocato 43 morti ed oltre duecento feriti nel quartiere sud della capitale, roccaforte sciita di Hizb’Allah, il movimento politico e paramilitare impegnato nel conflitto siriano in difesa di Assad. Da notare come in entrambi i casi, a distanza di 24 ore l’uno dall’altro, gli assalitori abbiano evitato obiettivi istituzionali, puntando direttamente ai civili, per incrementare l’ondata di panico.
Viene da chiedersi se quest’ultimo grave attentato dimostri la fine dell’equilibrio scaturito dai vecchi accordi di Doha, quando tutte le fazioni interne (ed esterne) del Libano trovarono un compromesso per la stabilità del governo e la pace del Paese. E pone inoltre diversi interrogativi sulla posizione saudita, che a difesa dei confini libanesi donò la somma di un miliardo di dollari a favore dell’esercito di Stato.

Entrambi gli attentati potrebbero essere una risposta ai duri colpi ricevuto dallo Stato Islamico a seguito dell’intervento russo (e Mosca ha pagato anche con l’attentato al volo di linea accaduto in Egitto), mentre USA, Regno Unito e Francia hanno incrementato il numero di obiettivi dell’ISIS finiti sotto attacco, fra cui, probabilmente, il noto “Jihadi John”, responsabile di vari macabri video-messaggi recanti delle decapitazioni.
Verosimilmente, il trasversale impegno della comunità internazionale contro l’islamismo nero rappresenta la difficile ricerca di una soluzione per la crisi mediorientale, in cui ogni protagonista persiste nel tutelare le proprie posizioni facendo timide concessioni alla controparte. Ed è in quest’ottica che probabilmente la Russia ha convinto Assad ad annunciare le eventuali dimissioni dalla presidenza della Siria a seguito di un potenziale accordo tra le fazioni impegnate sul terreno (un aspetto su cui la Francia, nella richiesta di allontanare Assad, si era dimostrata irremovibile).

Alla luce di questi eventi viene da interrogarsi sull’utilità della NATO, recentemente impegnata in Sardegna con addestramenti d’altri tempi ed incapace di prevenire i nuovi fenomeni terroristici. Un Patto Atlantico i cui partner seguono strategie solo apparentemente coincidenti l’una con l’altra, ma su cui rimane sul tappeto il grande tema della libertà. Come ha ricordato un editoriale di Leonardo Facco, la grande sfida del presente non si gioca sulla limitazione della nostra libertà personale a favore della sicurezza collettiva, ma nella necessità di limitare l’interventismo della politica estera occidentale, il quale, volenti o nolenti, ha innescato quelle dinamiche che oggi portano il terrore direttamente a casa nostra.

Iscarica custu articulu in PDF

U.R.N. Sardinnya ONLINE

Be Sociable, Share!

    Commenta



    Per la pubblicazione i commenti dovranno essere approvati dalla Redazione.