Per Andria Pili (Scida) l’emigrazione sarda dipende dal capitalismo: quale?
Nel leggere l’ultimo articolo di Andria Pili (del collettivo Scida) pubblicato nel Manifesto Sardo, si ha l’impressione di essere tornati ai tempi di Paul Sweezy, quando l’economista faceva discendere la concentrazione di capitale come base per l’azione imperialistica di uno Stato a danno di minoranze e classe lavoratrice. Per Pili infatti l’emigrazione giovanile sarda è un prodotto del capitalismo italiano, quello nordista, il quale si servirebbe della politica italiana per reprimere i diritti del popolo sardo, la cui emigrazione fungerebbe poi da manodopera a basso costo (e consumistica) a vantaggio dei presunti committenti.
Questa ricostruzione di fantasia si pone in linea con una classica impostazione marxista, peraltro datata sin dagli anni ’60, scientificamente inconsistente, anche in ragione dei dati inerenti la crisi economica dell’isola ed i livelli di spesa pubblica che l’accompagnano. Sul piano metodologico infatti Pili si limita a snocciolare i dati della disoccupazione senza osservare però quelli attinenti: a) al livello di spesa pubblica presente in Sardegna (65/70% dei redditi); b) al combinato disposto di tassazione locale e statale che orbita attorno ai ceti logistici e produttivi (stimata dalla CGIA di Mestre con punte al 68,6% sui profitti).
In buona sostanza, Pili non ha una visione generale della situazione regionale ed estrapola dati parziali con cui giustificare il proprio paradigma ideologico. Nella realtà, l’eccesso di terziarizzazione (pubblica) dell’economia sarda altera il mercato, spogliando l’imprenditoria locale della volontà di innovare e di competere, poiché la stabilità dei suoi stakeholder dipende dai livelli di erogazione assistenziale di sussidi e contributi controllati dalla politica (per approfondimenti su questo passaggio rimando all’articolo del sociologo Marco Zurru, “Sardegna, una borghesia addestrata alla debolezza”, Sa Natzione, 15-01-16). In altri termini, non abbiamo solo un problema di istruzione ma anche di strutturale debolezza del mercato locale su cui l’interventismo pubblico (e quindi non il capitalismo) rappresenta l’apice dei problemi. I nostri giovani imprenditori non sono competitivi non solo perché “poco istruiti dall’università sarda”, e né solo poiché impossibilitati a farlo da tasse e burocrazia, ma anche perché non ne hanno l’interesse a causa della logica assistenziale e clientelare in cui sono inseriti (che sussidia o salva i maggiori a scapito degli altri operatori, costretti a chiudere, licenziare, emigrare o delocalizzare).
Ad avvalorare questo orientamento si pone l’analisi di due fenomeni di base connessi tanto all’emigrazione sarda quanto a quella italiana. In Pili è assente il concetto di “residuo fiscale”, vale a dire il surplus di drenaggio fiscale che viene attuato dallo Stato Italiano proprio ai danni dell’economia settentrionale d’Italia, in particolare quella lombardo-veneta. Surplus che da decenni a questa parte finisce per sovvenzionare il settore terziario (nonché quello fallimentare secondario) di Regioni scarsamente competitive. Si tratta di decine di miliardi di euro che superano di gran lunga i presunti benefici che l’economia nordista riceverebbe ottenendo in cambio manodopera a basso costo dalle Regioni meridionali, insulari e del mezzogiorno. Ecco perché, con un ragionamento molto semplice, appare del tutto evidente come la teoria di Pili non abbia fondamento: perché se fosse vera i costi sostenuti da tale capitalismo del nord supererebbero i potenziali benefici ottenuti.
In secondo luogo bisogna poi considerare che una nutrita pattuglia di emigrati sardi non si rivolge tanto alle aree economicamente dinamiche d’Italia, ma viaggia verso quelle realtà internazionali, anche europee, dove esiste un mercato più liberale del nostro: basti pensare a Germania, Svizzera e Inghilterra.
Bisogna infine constatare che la stessa imprenditoria lombardo-veneta si trova in serie difficoltà a causa di analoghe problematiche insistenti sulla Sardegna: eccesso di spesa pubblica e relativa pressione fiscale. Problemi a cui la politica italiana ha timidamente risposto non con una ricetta liberale (ad esempio riducendo il peso dello Stato sulla produttività), ma orientandosi unicamente nel palliativo di attenuare costi e diritti dei lavoratori.
In conclusione, la nostra politica non è in grado di salvare la Sardegna, non perché sia ostaggio “del capitalismo”, ma perché la preservazione dei suoi privilegi passa per la tenuta di un iniquo sistema fiscale che danneggia tutti.
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