Brexit: no al superstato UE, si all’Europa dei popoli e dei commerci
Di Roberto Melis.
In pochi ci avrebbero scommesso ma è avvenuto: il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. La spaccatura dei popoli britannici premia i “leave” con 17.410.742 voti, contro i “remain”, fermi a 16.141.241 voti. Il 51,9% contro il 48,1% dei consensi. Inghilterra e Galles hanno scelto la fine del matrimonio con la pianificazione centralista di Bruxelles, mentre Scozia e Irlanda del Nord hanno votato per la conservazione.
Cameron perde ma i liberali vincono comunque. Si tratta di un evento che passerà alla storia, e ben difficilmente potrà essere derubricato come il prodotto di un “popolo razzista” contrario ad ogni forma di immigrazione che ha scelto la strada dell’isolamento. La Gran Bretagna ha scelto il libero mercato al posto del mercato unico. Non si tratta di un gioco di parole ma la consapevolezza che un Paese storicamente aperto alla globalizzazione non chiuderà le proprie frontiere secondo vecchie logiche protezionistiche ma si avvierà verso una nuova Europa che già conosciamo. Pensiamo alla Svizzera, alla Norvegia o all’Islanda, comunità che hanno rifiutato l’idea del superstato europeo e l’alone di indiscutibile sacralità che alimenta la sua costosa burocrazia.
Nelle scorse settimane numerosi mass media europei, eccetto alcune importanti testate inglesi ed alcuni magnati della finanza e dell’editoria, si erano schierati per il remain, ospitando economisti e opinionisti vari che avevano dipinto l’eventualità di un’uscita come una vera catastrofe economica. Invero, i gestori di hedge fund avevano già valutato le strategie post-referendum, mentre internet alimentava una buona dose di allarmismo prontamente scaricatosi sull’andamento delle Borse, Dario Sacchetti, fondatore di Anavio Capital ed ex Goldman Sachs, segnalava: “Il fatto di arrivare troppo tardi e di adottare tutti la stessa decisione di investimento, con conseguenze e rischi evidenti, rappresenta un grande dubbio, ma le reazioni saranno comunque graduali e chi si muoverà venerdì mattina, potrà forse perdere la prima parte dei guadagni, ma potrà verosimilmente contare su un aggiustamento dei listini che potrà protrarsi nell’arco di alcune settimane, come del resto dimostrano i precedenti esempi del referendum scozzese e le elezioni politiche britanniche del 2015”.
Ciò non toglie che nel prossimo biennio di negoziati UE-GB, a prescindere da quale governo guiderà Londra, si registrino importanti scossoni, ma che saranno del tutto gestibili dalla madrepatria di un Commonwealth che conta una grossa fetta della popolazione mondiale.
Le dure critiche alla Brexit, da parte di politici tedeschi e francesi, hanno visto la scontata partecipazione di quelli italiani. Citiamo per esempio Enrico Letta, secondo cui sarebbe stato necessario evitare l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, anche perché l’Italia è uno dei Paesi che corre maggiori pericoli in caso di indebolimento dell’UE, in quanto la tenuta della stabilità si trascina dietro un imponente debito pubblico, rischiando così di perdere l’ombrello protettivo garantito dalle misure di Francoforte. Più equilibrato invece il giudizio di Romano Prodi, che alla vigilia del voto invitava a non drammatizzare l’eventuale vittoria del “leave”, seppur preferendo Londra all’interno dell’UE, perché non riteneva comunque possibile la fine dell’area di libero scambio. Per contro, paradossale e antidemocratico il giudizio del senatore a vita Mario Monti, che ha giudicato il referendum come un eccesso di democrazia in quanto la strada intrapresa da Cameron distruggerebbe l’opera di una generazione di statisti europei.
Al di là di questa arroganza, cui solo i fatti potranno rispondere, il dato più evidente è che il Regno Unito ha offerto al mondo una grande prova di maturità democratica, perché il popolo ha il diritto di votare secondo il proprio giudizio, senza decisori e decisioni calate dall’alto.
L’euroscetticismo crescente è dovuto infatti ad un insieme di comportamenti sbagliati, incomprensibili alla tradizione britannica, a partire proprio da una linea costruttivistica che a Bruxelles, in nome di una crescita economica associata al legittimo inquadramento dei conti, ha imposto un’elevata pressione fiscale e senza alleggerire il peso di regolamenti e direttive tutt’altro che utili alla necessità di uscire dalla crisi economica. Un club al quale la sterlina non ha sentito l’imperativo di appartenere. Adesso per i conservatori e i liberali del vecchio continente sarà fondamentale uscire dalle solite tentazioni neokeynesiane per incamminarsi verso una revisione dei piani di crescita dell’Unione Europea e persino dei suoi trattati costitutivi, contro strategie che fino ad oggi hanno promosso la linea dell’austerità, nemica dell’iniziativa privata e sottratta ai vantaggi della concorrenza istituzionale, pena il declino.
Secondo il presidente dell’ALDE al Parlamento Europeo, Guy Verhofstadt, la cruda realtà è che l’Europa di oggi è molto lontana da quella progettata dai padri fondatori, dove la costante apatia di generazioni di politici, dal lancio dell’Euro alla fine degli anni Novanta, ha portato l’UE ad essere percepita come una gigantesca macchina burocratica, incapace di affrontare situazioni di estrema emergenza e di garantire il futuro del nostro continente di fronte alla corsa della globalizzazione. Combattere ogni estremismo significa ridisegnare completamente il sistema.
Il referendum britannico ha avuto il merito di smuovere le coscienze per quella che potrebbe essere una futura “Europa dei popoli”, in cui ogni partner avrebbe il diritto di scegliere una politica fiscale equiparata alle proprie caratteristiche. A dispetto dei tanti che hanno sempre sostenuto il mito del titanismo europeo, con un solo centro amministrativo occupato a governare il presunto “bene comune”.
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