I pasticci di Marx secondo Bawerk e Popper

Nel 1896 l’economista Eugen von Bohm-Bawerk demolì la teoria del valore di Marx sostenuta ne “Il capitale”, rilevando i principali disastri scientifici dell’opera. In seguito, Popper demolirà persino i presupposti dogmatici che animavano l’ideologia marxista, che i fatti confermano essere del tutto superata.
Vediamo in breve alcuni di questi argomenti per i non esperti – Di Adriano Bomboi.

In estrema sintesi, Karl Marx sosteneva che il valore di un prodotto fosse determinato dal lavoro utile a produrlo (e da ciò prese le mosse la sua visione del plusvalore, che a suo dire avvantaggiava solo il capitalista a danno dell’operaio). Mentre Bawerk sosteneva la teoria soggettiva del valore (in linea con le intuizioni dalla Scuola Austriaca). In cosa consiste quest’ultima teoria?

All’epoca si era già compreso che il valore di una merce non è determinato tanto dal lavoro ma dall’utilità che il consumatore attribuisce alla stessa.
Facciamo qualche esempio semplice e pratico: per Bawerk non avrebbe avuto alcun senso aprire un’azienda per la distribuzione di acqua minerale in una zona dove abbondano varie e gratuite sorgenti d’acqua; ma avrebbe avuto senso farlo in una zona desertica altamente trafficata. Da ciò, ponetevi la domanda: quanto sareste disposti a pagare per un bicchiere d’acqua nel deserto?

Ecco dunque che il valore di una merce, e il suo prezzo, non matura tanto in ragione del lavoro che è servito a produrla, ma della sua reale utilità a seconda del contesto e del bisogno individuale di chi la reclama.

Per Marx invece, nel libro terzo della sua celebre opera, “i prezzi calano se la merce ha richiesto meno tempo per produrla, e salgono quando è servito più tempo per produrla”.

Ovviamente i fatti smentiscono la tesi marxista sulla determinazione dei prezzi. Il tempo di lavoro di cui si avvantaggerebbe l’imprenditore non è la pietra angolare nella composizione del valore scambiato sul mercato in modo concorrenziale. E questa ormai è “archeologia economica” da un bel pezzo.

Ad ogni modo, da allora il dibattito economico non si è sicuramente fermato e tanti, anche contemporanei ma soprattutto pensatori successivi ai due autori, sono intervenuti su questi temi, confutando e reintegrando sino ad oggi l’uno e l’altro.

Ma perché Bawerk è noto solo agli esperti mentre Marx è diventato un’icona popolare al punto che i suoi errori, anche i più macroscopici, vengono costantemente riproposti ad oltre un secolo di distanza?
A mio avviso per cinque diversi fattori:

1) il primo, più banale, è che, sul piano retorico e della vasta filosofia politica ad esso associata, il marxismo è assurto a “filosofia della speranza” per una moltitudine di persone che nelle sue idee hanno trovato – o meglio, credono di aver trovato – la strada per una società “più giusta”;
2) il secondo è che, al netto dell’oratoria e delle fesserie scientifiche contenute nell’opera di Marx, questa rimane portatrice, al pari di altri autori classici, di diversi strumenti di riflessione;
3) il terzo è che Marx si affaccia nella storia in un’epoca attraversata da grandi sconvolgimenti economici, politici e sociali. La sua opera si diffonde nel corso della seconda rivoluzione industriale e si dispiega, dopo la sua morte, in una fase in cui “la massa” irrompe nello scenario politico (con l’allargamento del suffragio elettorale, sostenuto anche da liberali come John Stuart Mill) e le istanze da questa portata avanti. Anche in termini economici, grazie al mondo sindacale e intellettuale (sia in ambito socialista che comunista, seppur con sfumature diverse);
4) il quarto è che il “messaggio marxista”, ortodosso o rivisitato, viene costantemente associato all’ideologia politica promossa dallo stesso Marx (tramite “Il manifesto del Partito Comunista”). Un messaggio diretto tuttavia verso generazioni di persone prive degli strumenti culturali per comprenderne le criticità scientifiche, queste appannaggio di esperti. “Il capitale” diventò quindi una fede, più che una ragionata lettura dei suoi contenuti, da cui tutt’ora viene estrapolato il semplice e banale slogan sull’eguaglianza di rousseiana memoria;
5) il quinto, non meno banale del primo, è che il totalitarismo sovietico del secolo scorso è stato il più grande sponsor, anche in occidente, di ideali e contenuti costantemente tenuti in vita.

Nel Novecento sarà Karl Popper, amico di Friedrich von Hayek, ad argomentare, sul piano epistemologico, tutte le falle di questa fede, spacciata per “scientifica”. Tra queste, quella del cosiddetto “materialismo storico”. Cioè l’idea, secondo Marx, che il capitalismo rappresentasse solo una fase nell’evoluzione del genere umano destinata ad esaurirsi a seguito di tappe alquanto precise (in particolare, in condizioni di capitalismo avanzato, tali da stimolare la consapevolezza del “proletariato”).
In Popper invece non esiste alcun futuro predeterminato dell’umanità.

Ad esempio quest’ultimo evidenziò come la rivoluzione bolscevica non venne posta in essere in un Paese altamente industrializzato (come ad esempio l’Inghilterra dell’epoca) ma nella Russia zarista, ancorata ad un uso obsoleto dell’agricoltura. Si tratta di un concetto, per altri versi, che era già noto ad intellettuali comunisti “revisionisti” come Gramsci.

Ma Popper, soprattutto, criticò il marxismo poiché questi si sottrae al principio di falsicabilità: il marxismo, arroccato nel suo romanticismo, ignora i dati, non accetta il metodo scientifico di confrontarsi con le critiche e con gli esiti dell’applicazione pratica dei suoi enunciati. Ciò contribuisce ad alimentare l’irrazionalità della sua fede, spinta verso una dimensione totalitaria.
Ecco perché il critico liberale, sulla scorta delle intuizioni di Kant, separò così la scienza dalla metafisica (marxista).

Come ci si salva oggi dal dogmatismo di una fede, religiosa o civile che sia?

Come ai tempi di Galileo: studiando e uscendo dalle tenebre dell’ignoranza. Magari osservando un mondo in cui la povertà, prima che la diseguaglianza, è stata diminuita grazie alla diffusione del capitalismo (ved. dati della Banca Mondiale).

- Eugen von Bohm-Bawerk: “La conclusione del sistema marxiano” (1896, Etas edizioni 2002);
- Karl Popper: “Logica della scoperta scientifica” (1934, Einaudi 1970);
- Karl Popper: “La società aperta e i suoi nemici” (1945, Armando editore 2002, 2 voll.);
- Karl Popper: “The poverty oh historicism” (1957, The Beacon press);
- Karl Popper: “La lezione di questo secolo” (1992, Marsilio editori).

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    2 Commenti

    • La teoria del valore lavoro risale a Ricardo, che non aveva le suggestioni filosofiche di Marx.
      Anche Bohm Bawerk incontra le sue difficoltà: il problema della misurabilita’ del capitale non lo risolve in modo soddisfacente e la sua teoria dell’utilità per determinare il valore non è condivisa da economisti come Marshall e Pareto.
      A riprova del fatto che i grandi economisti, come tutti i grandi pensatori sono tali non per le risposte che elaborano, destinate prima o poi ad essere superate, ma per i problemi che pongono e che aprono nuovi terreni di ricerca e di confronto. Esempio Keynes: se in un mercato di concorrenza tutte le risorse sono impiegate; Marx: se in una società in cui il lavoro è libero esiste lo sfruttamento.

    • Non è un caso che nell’articolo abbia scritto: “Ad ogni modo, da allora il dibattito economico non si è sicuramente fermato e tanti, anche contemporanei ma soprattutto pensatori successivi ai due autori, sono intervenuti su questi temi, confutando e reintegrando sino ad oggi l’uno e l’altro.”

      Tutti gli autori si rifanno ad elaborazioni precedenti, ad esempio Ricardo in Adam Smith. In questa sede è stato citato Bawerk perché quella del 1896 rimane la prima e più strutturata critica al terzo libro sul capitale di Marx. Ed era incentrata sulla teoria soggettiva del valore (sostenuta da Carl Menger in poi). Anche la Scuola Austriaca, ovviamente, dai tempi di Bawerk è andata avanti.

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