L’ambiguità dell’autonomismo unitarista
“Le Regioni sono diventate la scala con cui amministratori spregiudicati danno l’assalto ai centri di potere. Una via privilegiata, non per contestare il potere centrale, ma per diventare parlamentari e fare carriera politica.
Naturalmente questi personaggi regionali distribuiscono risorse, a se stessi, e alle clientele personali e di partito”.
Così Gianfranco Miglio (1918-2001), giurista e politologo, interpretava la connotazione effettiva del regionalismo nel quadro dello Stato italiano. Ma vediamo in breve altri importanti passaggi del suo pensiero.
Di Adriano Bomboi.
Le Regioni sono diventate la scala con cui amministratori spregiudicati danno l’assalto ai centri di potere governamentale: una via privilegiata, non per contestare il potere centrale, ma per diventare parlamentari e fare carriera politica.
Naturalmente questi personaggi regionali distribuiscono risorse, a se stessi, e alle clientele personali e di partito (o di corrente).
In generale si può concludere che il Titolo V° della Costituzione è diventato, non la parte “autonomista” dell’ordinamento, ma il settore specializzato nella produzione di rendite politiche.
Da dove originano questi limiti secondo il teorico lombardo?
Nello spirito del vecchio ordinamento monarchico-piemontese, le Regioni sono di fatto solo grosse Province, buone per aiutare il governo centralizzato del Paese, occupandosi di questioni secondarie, tutt’altro che soggetti di un ordinamento federale, ma neppure elementi di una vitale amministrazione autonoma. Considerata poi l’uniformità della loro organizzazione, spicca la grande diversità di struttura economico-sociale: che cosa hanno in comune la Lombardia e il Molise, o il Piemonte e la Lucania?
Insomma, fallita l’attuazione del regionalismo, negli anni Settanta e Ottanta, lo Stato italiano entrò in una fase accelerata di dissesto dei suoi equilibri politici.
Infatti, secondo Miglio, per rispondere all’emersione della contestazione e degli attentati, DC e PCI trovarono un’intesa volta alla stabilità sociale, ma che in realtà finì per acuire i problemi:
Il prezzo di questa esperienza fu salatissimo; in cambio del rifiuto del terrorismo rivoluzionario, il governò varò una serie di iniziative che venivano incontro alle istanze della sinistra: un vasto e ambizioso sistema di assistenza sanitaria, concessioni in materia di pensioni, di scala mobile e di cassa integrazione. Questa politica trasformistica tacitava l’opposizione, ma dissestava l’erario. Le riforme – tra le quali fu compreso anche il finanziamento pubblico dei partiti – si rivelarono costosissime e prive di copertura finanziaria. Contemporaneamente, ingenti sussidi venivano inviati nel sud per stimolare l’economia meridionale (in realtà incamerati da politici corrotti e utilizzati per accrescere il tenore dei consumi e non per aumentare la produzione).
In Sardegna, e nel mezzogiorno in generale, la situazione fu evidente già nel secondo dopoguerra. Miglio si orientò nell’osservazione del vecchio notabilato democristiano:
Nei tardi anni Cinquanta la DC sostenne il “Piano verde”, che destinò cospicui mezzi pubblici alla modernizzazione dell’agricoltura. Ma questi aiuti toccarono soprattutto i “coltivatori diretti”, una potente categoria collaterale al partito. Questo crescente fiume di mezzi finanziari statali incentivò naturalmente la corruzione. [...] Tutta l’economia pubblica si attrezzò come fonte di posti riservati ai funzionari di partito: dalle banche alla gestione delle licenze edilizie, all’organizzazione del sistema pensionistico.
[...] Il particolare fa pensare che le Regioni abbiano “comperato” i loro diritti di libertà, avendo rinunciato a difenderli con le armi.
Quanta attualità.
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