Liberi, oltre i luoghi comuni. Un commento sul tour sardo di Michele Boldrin
“Liberi, oltre i luoghi comuni”.
Può essere riassunto così il filo conduttore del tour tenuto dall’economista Michele Boldrin in Sardegna.
Tra “l’insularità in Costituzione”, definita come irrilevante, residuo fiscale, vertenza entrate e convergenza, cerchiamo di sviluppare un ragionamento sull’importanza dei contenuti trattati per il panorama riformista sardo, indipendentismo incluso.
Di Adriano Bomboi.
Ringraziamo Michele Boldrin per la disponibilità e i promotori del tour sardo di “Liberi, oltre le illusioni”. Da Gianni Carboni per Sassari alla redazione di Arrexini² per Cagliari e Manolo Mureddu di Canale 40 per Carbonia.
Gli incontri non hanno mancato di focalizzarsi sul problema della disinformazione diffusa in tutta Italia, relativamente al contesto economico, con una particolare attenzione al caso sardo. In questa sede vogliamo orientare l’interesse dei lettori su quest’ultimo aspetto, su cui si è focalizzato maggiormente l’incontro di Sassari.
Di cosa si è parlato esattamente?
Un tema fondamentale del dibattito ha riguardato la composizione del PIL regionale, o meglio, cosa e quanto esportiamo. Contenuti noti da anni ai nostri lettori, ma per nulla scontati nell’opinione pubblica sarda, e sfortunatamente anche nella politica sarda, ancora attraversate da una serie di luoghi comuni che vanificano ogni crescita culturale ed economica dell’isola.
Pensiamo a quella politica che continua a sussidiare improduttivi ambiti agropastorali, in nome di una fantomatica centralità delle produzioni ovicole nel PIL sardo, ed in nome di romantiche narrazioni sul pastoralismo.
O pensiamo, soprattutto, all’idea secondo cui la Sardegna avrebbe una propria specificità socio-economica, i cui problemi nascerebbero unicamente nel rapporto Stato-Regione.
In realtà, come sappiamo, tutti gli indicatori ci pongono in linea con quelli del mezzogiorno italiano. Per citarne alcuni, basti osservare l’incapacità della nostra pubblica istruzione di stare al passo coi tempi; o il ritardo tecnologico del nostro tessuto produttivo od in generale la sua bassa produttività. Problemi analoghi a quella metà d’Italia che dal Lazio in giù fatica a trovare una cultura amministrativa diversa dall’assistenzialismo propugnato dal suo ceto politico. Obbligando questa metà a campare dai trasferimenti di altre Regioni, soprattutto settentrionali. Ossia ciò che determina il famoso residuo fiscale negativo, in Sardegna spesso negato o sottovalutato da tanti amici indipendentisti, per ragioni che non stiamo qui a riassumere.
Cosa significa? Che la specificità sarda esiste unicamente in termini culturali, ma i problemi della comunità sarda sono gli stessi del “sistema Italia” nella sua interezza. Per essere chiari, i ritardi dell’isola non derivano tanto da presunti complotti dei governi romani, ma dalla natura delle istituzioni e dalla complessiva cultura politica che le alimenta. Questa considerazione ovviamente attribuisce anche ai sardi una bella quota di responsabilità.
Niente di nuovo per una parte del mondo autonomista, ma perché ho introdotto questo argomento? Perché ci consente di non confondere la retorica politica con l’effettiva comprensione delle priorità a cui prestare attenzione, che non possono essere affrontate unicamente nello spazio di qualche vertenza tra Cagliari e Roma, ma richiedono un approccio sistemico ai problemi.
Esempio pratico: nel corso del dibattito sassarese c’è stato uno scontro tra Michele Boldrin ed il politologo sardo Carlo Pala. Quest’ultimo ricordava con puntualità il tema della “vertenza entrate”, un vecchio credito della Regione, nei confronti dello Stato, quantificato ai tempi della Giunta Soru in miliardi di euro. Un importo che a posteriori, oltre ad essere stato ricalcolato al ribasso, venne simbolicamente rilanciato dagli indipendentisti come “esempio” di ruberia dello Stato ai danni dei sardi.
L’indipendentismo, e buona parte della politica sarda, raccontò solo una parte della verità: lo Stato non restituiva parte del gettito fiscale maturato nel territorio regionale che, in base allo Statuto di autonomia, sarebbe dovuto tornare indietro.
L’altra parte riguarda il famoso residuo fiscale negativo che a pochi interessava ricordare. Ha senso infatti incensare battaglie come quella della “vertenza entrate” nel momento in cui i sardi ricevono, annualmente, altrettanti miliardi di euro per ottemperare al loro fabbisogno?
Battaglie simili hanno dunque una valenza secondaria rispetto alla necessità di affrontare problemi ben più grossi, che riguardano inevitabilmente l’architettura istituzionale italiana. Ed è a questo punto che arriviamo ad un tema toccato da Bianca Biagi, responsabile economica del Crenos per l’università di Sassari, e da Michele Boldrin. Una delle soluzioni potrebbe essere quella di promuovere un assetto federale in grado di determinare un sistema di incentivi a vantaggio delle Regioni meno sviluppate. Vale a dire: non più sussidi, non più assistenza, ma più poteri che equivalgano a maggiori responsabilità nella gestione dei conti pubblici territoriali. L’obiettivo insomma dovrebbe essere quello di migliorare l’accountability dei nostri amministratori.
Probabilmente Biagi avrebbe anche dovuto ricordare che un suo noto collega del Crenos, Francesco Pigliaru, ex governatore della Regione, ha utilizzato il lavoro del centro studi per quantificare dei “costi relativi alla condizione di insularità” della Sardegna. Con l’obiettivo di sostenere l’assistenziale iniziativa di “insularità in Costituzione” promossa da tantissimi amministratori sardi. Insomma, qualcosa di ben diverso dalla nostra necessità di sviluppare un sistema istituzionale capace di produrre incentivi che ci allontanino dall’assistenzialismo e dalla cultura del piagnisteo permanente.
Che rilevanza ha lamentarsi di essere un’isola, soprattutto in un mondo globalizzato, dove si importa e si esporta senza particolari difficoltà tra isole e continenti a migliaia di chilometri di distanza? Per di più, nel nostro caso, trovandoci in pieno Mediterraneo occidentale, tra penisola italiana, Francia, Spagna e Africa del nord. Aspetti più volte approfonditi su Sa Natzione.
Questo argomento ci offre lo spunto per concludere con un altro tema esposto a Sassari da Michele Boldrin: siamo sicuri che sia necessario far convergere l’economia di Cagliari con quella di Milano? Ha senso pensare di far convergere due aree socio-economiche diverse? No. Ogni area deve trovare la sua strada allo sviluppo. E nel farlo, deve uscire dalla mitologia, tutta italiana, secondo cui più spesa pubblica porterebbe sempre e comunque a più crescita.
Insomma, anche l’indipendentismo sardo, se intende offrire un concreto contributo allo sviluppo dell’isola, non potrà ignorare un confronto diretto coi dati economici, perché si tratta di temi che riguardano tutti.
Si tratta di un lavoro che in Sardegna, corredato di numeri, in chiave indipendentista, è stato già avviato nel mio ultimo libro uscito quest’anno.
- Alcune infografiche dal collettivo “Liberi, oltre le illusioni”:
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U.R.N. Sardinnya ONLINE