Dorsale del metano: ambientalisti non hanno alternative
Dorsale del metano: l’alternativa proposta dagli ambientalisti è inefficiente, costerebbe 10 miliardi.
Il piano “Phase out 2025”, proposto da WWF, Cobas Cagliari, USBS e Italia Nostra Sardegna, condensa in 55 pagine errori, omissioni e confusione in materia di innovazione scientifica delle rinnovabili.
Presenta inoltre ingenti e insostenibili costi a carico dei sardi. E ignora persino la complessiva politica energetica dell’UE per il futuro, che include colossali gasdotti come il Nord Stream 2 e il Trans-Adriatic Pipeline.
Vediamo i passaggi più significativi.
Di Adriano Bomboi.
Purtroppo, come volevasi dimostrare, la necessità di un dibattito serio e costruttivo attorno al futuro energetico della Sardegna ha assunto i connotati dello scontro ideologico: da un lato abbiamo la Regione ed il mondo sindacale, che propongono una giusta metanizzazione della Sardegna, ma mediante una dorsale di trasporto su cui sarebbe stato preferibile sviluppare maggiori analisi e riflessioni. Mentre, dall’altro lato, abbiamo l’articolata galassia ambientalista, che propone, o ritiene di proporre, “soluzioni alternative”.
Per capire la credibilità di queste ultime è sufficiente leggere il piano “Phase out 2025”, di 55 pagine (PDF), proposto da un collettivo animato da WWF, Cobas Cagliari, USBS e Italia Nostra Sardegna.
Sfortunatamente, l’analisi del documento porta a galla le numerose e costose falle del ragionamento sostenuto dagli ambientalisti. Ne segnaliamo alcune, le più significative.
Ad esempio, si afferma che in Sardegna:
«La produzione netta di energia elettrica da fonti rinnovabili soddisfa il 33,70% dell’energia richiesta nell’isola e il 66,00% della domanda se si esclude l’industria.
Tale produzione risulta inoltre quasi doppia rispetto all’obiettivo del 17,8% fissato al 2020 dal Burden sharing per la Sardegna».
Come abbiamo spiegato anche in una recente intervista di Sa Natzione all’ingegner Borrielli (Politecnico di Torino), il problema scientifico non è determinato tanto dalla capacità produttiva quanto da quella di stoccaggio e di potenza. Già oggi, per fare un esempio, saremmo in grado di produrre il 100% del volume di energia richiesta dal comune fabbisogno civile e industriale dell’isola.
Basterebbe realizzare costosi e chilometrici impianti per produrre la percentuale di energia mancante all’appello, ma in termini pratici si tratterebbe di pura fantascienza. Perché?
Perché non esiste ancora un’efficiente tecnologia in grado di conservare ed erogare l’energia ottenuta al momento giusto, conservando inoltre la potenza necessaria per animare tutti gli impianti pubblici e privati necessari alla vita civile, in qualsiasi momento (ciò è parzialmente possibile solo in alcuni Stati posizionati in precisi contesti geografici e climatici del globo).
Questa è la ragione per cui potremmo anche produrre tutta l’energia rinnovabile desiderata, con notevoli costi economici, senza concrete applicazioni nel tessuto economico e civile.
Ecco perché l’affermazione del piano “Phase out 2025” significa tutto e niente.
Ma non scoraggiamoci e proseguiamo. Il documento afferma pure che:
«Nonostante sia in costante aumento la potenza installata di energia elettrica derivata da FER, il suo utilizzo ottimale risulta fortemente condizionato da una rete di trasmissione e distribuzione inadatta. Se si procedesse ad un adeguamento del sistema elettrico nel suo complesso, alla realizzazione di sufficienti impianti di accumulo e ad un incremento della produzione da FER, si potrebbe assicurare con le sole fonti rinnovabili il soddisfacimento dell’intero fabbisogno energetico dell’Isola. […] Al fine di evitare ulteriori speculazioni sulla produzione di energia elettrica e contenere sprechi e sovrapproduzioni i futuri incentivi destinati alle FER dovrebbero privilegiare la produzione diffusa, l’autoconsumo e la costituzione delle Comunità Energetiche».
Secondo tali affermazioni, oggi ci sarebbe una rete inadatta alla distribuzione di energia prodotta da fonti rinnovabili, che si potrebbe ottimizzare tramite un aggiornamento della stessa, ed una sistematica promozione della cosiddetta “produzione diffusa” (il documento di 55 pagine si occupa poi in varie sezioni di argomentare la natura tecnica e teorica della definizione), consistente nell’autoconsumo e nella costituzione di comunità energetiche.
Cioè ogni privato potrebbe produrre l’energia necessaria al suo fabbisogno, ma anche una determinata comunità di cittadini connessa in specifici distretti di reti intelligenti.
Su questo passaggio ci sono diverse considerazioni da fare.
Che la produzione diffusa possa rappresentare il futuro energetico della società è plausibile ed è ormai una possibilità vagliata da una variegata letteratura scientifica in materia, financo dal diritto dell’Unione Europea, che oggi si sta sempre più orientando – come ricordano pure gli ambientalisti – nella promozione di soluzioni green.
Il documento tuttavia si scorda di segnalare tre elementi di non poco conto.
Uno di natura scientifica, uno di natura economica ed uno di natura politica.
Il primo ci riporta a quanto affermato in precedenza, ossia l’insufficienza della tecnologia attuale nel garantire una valida performance delle capacità di accumulo e potenza da distribuire. Tali ambientalisti non distinguono la sperimentazione dall’applicazione. La prima si fa sempre e solo su campioni ridotti di popolazione, ciò per evitare disagi e costi determinati da tecnologie embrionali.
E questo ci porta direttamente al secondo elemento: ipotizziamo ad esempio di fornire tutti gli appartamenti sardi di un impianto sul modello di quello esposto nello studio “Solar photovoltaic electricity generation” (2019), citato pure nel documento. Anche ipotizzando un costo medio di 10.000 euro, spalmato su almeno 1 milione di abitanti, otteniamo un costo totale di 10 miliardi di euro.
Il documento, al riguardo, non presenta alcuna valutazione di impatto economico.
E si tratta di costi che andrebbero naturalmente maggiorati con le dovute integrazioni di spesa derivanti dall’inefficienza degli impianti da fonti rinnovabili. Infatti, per evitare gravi e pericolosi disagi alla popolazione (pensiamo ai blackout di ospedali, case e attività commerciali), dovremmo supportare tali reti locali e individuali con la rete elettrica tradizionale. Costi che ad un nucleo familiare medio, composto da 3 individui, potrebbero comportare un aggravio di quasi 1000 euro a semestre.
Si tratta peraltro di impianti che, nel momento in cui la scienza otterrà tecnologie più performanti, andrebbero rottamati e sostituiti dai nuovi, con ulteriori costi di transizione per miliardi di euro, oggi di difficile quantificazione con precisione. Ad esempio poiché nella fase iniziale di immissione sul mercato, gli ultimi ritrovati tecnologici possono avere un prezzo maggiore, che andrebbe poi a scalare man mano che la concorrenza e la diffusione di tali prodotti avrà luogo.
A questo punto il lettore si starà chiedendo: ma qual è l’elemento politico che gli ambientalisti hanno omesso di segnalare?
Il loro documento non manca di riportare le politiche green promosse dall’UE, ma si scorda di riportare le politiche UE relative alle fonti energetiche tradizionali, che non rappresentano affatto il passato, ma il presente e il futuro. Soprattutto sulla materia che riguarda questa riflessione: il metano.
I nuovi programmi TEN-E (Trans-European Energy Infrastructure) hanno tre obiettivi:
1) assicurare una valida ed efficiente transizione energetica (che, a differenza di quanto pensano gli ambientalisti, potrebbe durare decenni, e in quest’arco di tempo bisogna vivere e lavorare);
2) far si che tale transizione sia la più eco-sostenibile possibile (ed il gas è oggi la fonte tradizionale che si adatta meglio allo scopo, rispetto a petrolio e carbone, e rispetto ai timori oggi sollevati nella pubblica opinione dal nucleare, che invece è ormai altrettanto sicuro e performante);
3) ridurre l’ingerenza geopolitica di potenze regionali e globali (vedere ad esempio le “guerre del gas” alimentate dalla Russia; i piani sul Nord Stream 2, o la recente scelta di archiviare il “Nabucco” turco in favore del Trans-Adriatic Pipeline per il cosiddetto “corridoio meridionale del gas”).
Diffidate dunque da presunti e improvvisati esperti che omettono di riportare importanti informazioni sul futuro della sicurezza energetica, non solo sarda, ma dell’intero continente europeo.
A tal proposito bisogna comunque segnalare che il documento ambientalista di cui abbiamo parlato ha l’onestà intellettuale di riportare almeno il progetto del cavo HVDC Sardegna-Sicilia-Continente sud, che nella fase di decarbonizzazione dell’isola dovrebbe quantomeno assicurare il necessario approvvigionamento elettrico sardo (in una fase in cui, invero, altri Paesi europei, come la Germania, continueranno ad avvalersi di centrali a carbone).
E l’indipendentismo sardo? Che posizione ha rispetto alla compagine regionale sardista?
Sarebbe cosa buona e giusta se ancora una volta evitasse di farsi dettare l’agenda politica dall’ambientalismo radicale.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE