Mediterraneo: 6 anni fa la guerra del Libano. Quale influenza oggi dalla Siria? – I.V.

Fotos Beirut 2006/2007 – A. Bomboi (U.R.N. Sardinnya ONLINE – Wmv).

Estate 2006, a seguito del lancio di razzi verso una cittadina israeliana di confine da parte dei filo-iraniani di Hizb’Allah, Tel Aviv accusava il Libano di sostenere attivamente le attività paramilitari sciite e lanciava un’operazione su vasta scala contro il Paese dei cedri. Da parte dello Stato ebraico lo scopo era quello di indebolire politicamente e militarmente il “partito armato di Dio”.

Il conflitto ripresenterà uno dei più classici problemi del Medio Oriente: da una parte, le forze ostili ad Israele (come l’Iran) che ritengono Tel Aviv il più grande ostacolo al consolidamento di un’influenza politica capace di contrapporsi alle potenze filo-occidentali sunnite del Golfo (Emirati e Sauditi); dall’altra, Israele, impegnata a preservare il suo legittimo diritto all’esistenza. Dinamiche che hanno portato quest’area del Medio Oriente ad una spirale costante di attacchi e rappresaglie.
Se infatti bisogna condannare quelle forze che attaccano e non riconoscono i diritti dello Stato ebraico, alla stessa stregua, bisogna condannare l’eccessivo uso della forza impiegato da Israele contro i suoi avversari. Un fenomeno che rinnova costantemente la scia di sangue e che quindi fornisce nuova linfa propagandistica all’antisemitismo, sia in Medio Oriente che in occidente, presso alcuni ambiti politici e culturali che non comprendono quanto le responsabilità siano collettive e non ascrivibili esclusivamente ad una parte piuttosto che all’altra. Come ben sottolineato anche dallo scrittore Amos Oz.

Il conflitto del 2006 terminò ad agosto dopo 34 giorni, grazie alla mediazione ONU che portò alla risoluzione 1701, dando luogo alla nuova forza di interposizione multinazionale (UNIFIL). Israele cesserà i bombardamenti rimuovendo solo a settembre il blocco navale attorno alla costa che nel Mediterraneo avrebbe dato i natali all’antica civiltà Fenicia. Una delle più ricche di bellezze culturali ed ambientali della regione.
Secondo le stime ONU, la guerra è costata attorno ai 1400 morti, di cui 800 civili inermi e 500 miliziani di Hizb’Allah. Oltre 4500 i civili feriti, a cui bisogna sommare i disturbi psicologici in cui è incorsa una percentuale di popolazione a seguito dei bombardamenti aerei e dei lutti. Luce ed acqua non assicurate nelle ore notturne a causa dei danni infrastrutturali subiti.
Al primo arrivo all’aeroporto di Beirut, fra cecchini e metal detector che vi accompagneranno persino nei centri commerciali, le forze di sicurezza scruteranno i timbri del vostro passaporto chiedendovi se siete passati per Israele, in quel caso, a meno che non siate diplomatici, militari ONU o Capi di Stato, vi verrebbe negata la green card con cui accedere al Paese.

La guerra non ha sconfitto il “partito di Dio” ma lo ha, al contrario, rafforzato, aumentandone il prestigio sociale nella sua carica patriottica a difesa del Libano. Un fenomeno rafforzato dalla sua potente e capillare politica di marketing e di assistenzialismo verso i ceti più bassi della popolazione sciita.
Il Paese ha sempre storicamente risentito della sua difficile posizione-cuscinetto fra le potenze regionalistiche che ne hanno sempre pilotato gli umori interni, a partire dalla Siria (alleata di Teheran), che dopo l’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri (fautore di una politica di equidistanza da Damasco) è stata accusata di aver ordito un complotto per eliminare un leader scomodo (curiosità, la famiglia Hariri è proprietaria di alcuni immobili in Gallura).

La Siria abusò della sua influenza dovuta alla preponderanza della sua forza militare che costituiva il vecchio contingente di pace inviato da alcuni Paesi arabi per impedire la prosecuzione della sanguinosa guerra civile libanese (1975-1990) avvenuta con vari sconvolgimenti di alleanze interne ed esterne. Una influenza che ancora oggi si proietta nella politica multiconfessionale del Libano e che porterebbe a ritenere possibili ma non certi i rischi di un estensione del conflitto interno alla Siria verso Beirut. In questo caso il regime degli Assad riuscirebbe a spostare le attenzioni internazionali dalla Siria al Libano, persistendo in una repressione delle proteste popolari che ormai trova importanti avversari, a partire dalla Turchia. Il premier Erdogan infatti viene ritenuto il portatore di una nuova politica “neo-ottomana”, proponendo Ankara come nuovo paciere politico del Medio Oriente. Questo spostamento di equilibri, interno alla regione, in particolar modo a seguito del crollo di Mubarak in Egitto, viene inquadrato da vari osservatori internazionali sia come uno scudo nei confronti dell’impazienza israeliana contro le forze anti-ebraiche, e sia come un deterrente nei confronti delle mire imperialistiche dell’Iran. Con l’indebolimento di Damasco, Teheran vede perdere il suo più diretto alleato dell’area, nonché principale sponsor della politica libanese. Ed è proprio questo il paradosso che porta a ritenere non certa l’estensione della strisciante guerra civile siriana verso il Libano. Con i negoziati di Doha del 2008 promossi dalla Lega Araba, Beirut ha posto le basi di un governo di unità nazionale, guidato dal presidente Michel Suleiman, la cui maggioranza presenta diverse componenti della storica influenza siro-iraniana, incluse le componenti druse-maronite. Nel 2012 Hizb’Allah rimane parte del governo del Paese e viene indicato come garante della pace. Un deteriorarsi della situazione interna provocherebbe una automatica perdita di credibilità da parte del “partito di Dio”, che non avrebbe quindi valide ragioni per supportare un’escalation della tensione (pur sempre presente). Vi è inoltre da considerare che tutte le principali istituzioni di Pubblica Sicurezza del Paese (eccetto la Polizia) sono in mano ad elementi filo-siriani. E se consideriamo la volontà popolare di perseguire una stagione di pace e di benessere, si può affermare che non vi siano sufficienti elementi per poter pensare ad una estensione su vasta scala del conflitto dalla Siria al Libano.

E Israele? Se dell’Egitto non si preoccupa, contando sull’influenza dell’esercito che continuerà a monitorare il Paese anche con la recente vittoria dei “Fratelli Musulmani”, niente vieta di pensare che Tel Aviv sia fra i promotori della democratizzazione di Damasco come chiave per isolare gli Ayatollah iraniani.

Di Adriano Bomboi.

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