Indipendentismo Tuareg, Francia in Mali e referendum britannico: Quale UE vogliamo?

Lo scorso 10 gennaio, il presidente Maliano Dioncounda Traoré, designato dalla Giunta militare, comunicava ai media che, in comune accordo con l’ECOWAS (la Comunità Economica dell’Africa Occidentale), si richiedeva un intervento militare della Francia contro il terrorismo islamico presente nel nord del Paese. Cerchiamo quindi di capire quale sia la situazione reale senza scadere in facili semplificazioni terzomondiste.
Primo aspetto: Il nord del Mali è una zona relativamente appetibile in termini economici, sia per gli investimenti stranieri, sia per lo sviluppo delle popolazioni locali. Giacimenti minerari e progetti nel campo del settore idroelettrico promettono ampie possibilità di risollevare i ceti più disagiati della popolazione locale. Cina, UE (Francia in testa), USA e alcuni Stati africani, fra cui la Libia post-Gheddafi, sono fra i maggiori players interessati al territorio.
Secondo aspetto: Il nord del Mali (Azawad) è stato unilateralmente dichiarato indipendente dall’omonimo movimento di liberazione nazionale. Il movimento è prevalentemente composto dalle locali componenti della popolazione Tuareg (sparsa in tribù in vari Paesi del Nord-Africa), di estrazione laica, ha combattuto la sua battaglia nel legittimo diritto di assicurare alla sua popolazione il controllo del territorio sottraendolo al governo centrale del Mali. Il conflitto si è acuito nel 2012, quando un colpo di Stato interno al Mali si è proposto di superare lo stallo della contesa politica fra Mali e Azawad (aree Sahel e Sahara). In questo frangente, il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ha deciso di incrementare la propria forza alleandosi col movimento integralista salafita Ansar Dine, circostanza che ha portato all’acuirsi delle violenze e ad uno stallo della situazione.
Terzo aspetto: Diversi osservatori internazionali reputano Ansar Dine come il prodotto di una manovra organizzata da alcune monarchie del Golfo (sauditi ed emirati) in chiave filo-americana, al fine di limitare la presenza cinese in aree strategiche del continente africano. Dinamica che avrebbe favorito la Francia, storicamente presente sul piano economico e militare nel Nord Africa (Francafrique), il cui intervento avrebbe il fine di tutelare la propria sfera di influenza nell’area rispetto agli altri contendenti, ma in cui si sono avvicendati vari Paesi UE (Operation Serval) e con l’appoggio delle Nazioni Unite per pacificare il contesto (Risoluzione 2085).
Quarto aspetto: Qualsiasi sia l’origine di Ansar Dine, il movimento ha iniziato ad attaccare le popolazioni locali causando morte e devastazione, ed espandendo le proprie attività verso il Mali centrale. La circostanza ha spinto dunque le popolazioni locali ad auspicare la fine delle violenze ed ha salutato l’arrivo della Francia come il primo e vero strumento concreto per arrestare il terrorismo islamico. Il fenomeno ripropone un problema classico già presente in altre aree dell’Asia e del Medio Oriente: l’occidente, che sia o meno la causa della creazione del pretesto di intervenire, non può comunque sottrarsi dal farlo. Perché ormai il problema è una minaccia seria e concreta alla vita delle popolazioni locali, e l’opinione pubblica occidentale non può pretendere di chiudere gli occhi di fronte alle violenze con la giustificazione che “sono affari interni degli africani”. Prima occorre occuparsi dell’urgenza, dopo delle responsabilità.
Quinto aspetto: Le popolazioni Tuareg dell’Azawad hanno diritto a vedersi riconosciuta l’indipendenza, ma è ben difficile che questa possa essere conservata attraverso la violenza e dopo aver dato legittimità ad Ansar Dine senza lavorare sul piano politico e democratico, a prescindere dall’autoritarismo Maliano. A Kidal il movimento indipendentista ha comunque intrapreso contatti con la controparte dell’esercito francese e di quello del Mali per fermare il dilagare dell’islamismo radicale. Dove inizia l’approssimazione nella gestione di questa vicenda e dove finisce il calcolo geopolitico?
Sesto aspetto: Per ragioni politiche ed economiche, anche la Libia ed i Paesi africani dell’ECOWAS sono corresponsabili della situazione, al pari dell’occidente. Non si può più credere alla favola moralista e razzistica di alcuni intellettuali occidentali radical-chic che dipingono gli africani solo come poveri e innocenti colonizzati mentre gli occidentali sarebbero gli unici cinici conquistadores del momento.

Con l’intervento in Mali si è consumata anche l’ultima possibilità di dare credito ad una comune politica estera UE, storicamente suddivisa in base agli specifici interessi dei vari Stati membri. E proprio nell’Africa subsahariana l’antico eurocentrismo non manca di resuscitare la sua anima neocolonialista rispetto ad un approccio meno radicale e concretamente umanitario in relazione ai propri interessi. Sono i paradossi del nuovo millennio, perché mentre il regime cinese penetra in diversi Stati africani attraverso cospicui investimenti sulle materie prime (ma fornendo anche importanti strutture assistenziali alle popolazioni locali), il democratico occidente non esita ad intervenire militarmente a tutela dei propri interessi e delle popolazioni locali, ma con scarso impegno assistenziale e, magari, contribuendo proprio alla creazione dei problemi che determinano il suo impegno bellico. Un approccio deplorevole, ma non meno sarebbe quello di lasciare al proprio destino le popolazioni locali nel momento in cui il problema della sicurezza dilaga al punto da poter arrivare persino nelle nostre case. Ragion per cui adesso il vecchio continente deve sicuramente impegnarsi sotto il profilo militare, e chi è contrario, non dimentichi il Rwanda degli anni ’90.

Questa non è esattamente l’Europa a cui abbiamo sempre guardato. L’Europa dei popoli deve ancora arrivare, e dovrebbe essere una Europa che, al problema di una politica comunitaria unica, anteponga il rispetto dei diritti civili ed economici sia all’interno che all’esterno della federazione. Una Europa svincolata dalle tecnocrazie che hanno irrigidito la governance monetaria, contro un suo sbilanciamento a favore degli Stati più forti dell’Unione, contro l’eccesso di burocrazia e contro la debolezza della sua azione in difesa delle minoranze, che rimangono così assoggettate, sia fuori che dentro l’UE, alla sovranità dei singoli Stati membri.

La congiuntura politica ed economica britannica potrebbe essere un momento favorevole per discutere nuovamente del futuro assetto UE.

Recentemente, il premier inglese Cameron ha dichiarato di voler mettere in discussione il futuro della Gran Bretagna all’interno di questo modello di Europa. Ostaggio di una minoranza euroscettica presente nel suo Governo, la mossa si inserisce comunque nella tradizionale equidistanza tenuta dal Regno Unito nei confronti del resto d’Europa, che ha parlato della necessità di non omologare ma di rispettare le tradizioni dei singoli Paesi, e soprattutto di interrogarsi sull’utilità di tenere in vita un assetto burocratico che non produce i benefici sperati. Un discorso che alcuni osservatori interpretano come un ritorno al vecchio atlantismo sostenuto da Londra nel corso della guerra fredda, ma che nei suoi contenuti risulta tutt’altro che nazionalistico e vicino a quelle idee di liberalismo che fin dall’inizio avevano permeato i padri fondatori dell’Europa politica e che condividiamo appieno.

Cameron ha previsto un referendum popolare di permanenza nell’UE per l’anno 2017, in caso di vittoria dei conservatori alle prossime elezioni amministrative del 2015. Viene visto come strumento utile ad un richiamo alla competitività dell’UE, dalla quale dipende il successo dei britannici.
Sono stati diversi fattori a suscitare la posizione del Governo britannico sulla materia, soprattutto la complessiva politica di austerity, causa della drastica riduzione dello standard di vita degli europei e degli inglesi. Per Cameron dunque occorre che l’UE non si muova come un blocco monolitico ma come una rete più veloce e più flessibile, che rispetti le reciproche diversità degli Stati che la compongono, senza soffocarle. La riforma dell’Unione Europea dovrebbe essere effettuata nel rispetto dei principi democratici e deve permettere di ottenere un sistema più equo e competitivo, che dia maggiori poteri ai Parlamenti nazionali, fin’ora esautorati dalla ratifica di determinati provvedimenti amministrativi.

Cameron ha così anticipato uno dei temi della prossima campagna elettorale, e se da una parte ha messo in crisi l’opposizione laburista, contraria ad un referendum, i conservatori studiano una probabile alleanza con il partito indipendentista britannico ed euroscettico UKIP (United Kingdom Independence Party), la destra populista, che ha come obiettivo principale il ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea, ed i cui temi potrebbero indirettamente spingere le istanze riformiste ma non anti-europeiste dei liberali.

Intanto le contrattazioni della Borsa londinese non hanno mostrato momenti di difficoltà per il discorso di Cameron, e la sterlina ha continuato a rafforzarsi sia sul dollaro che sull’euro. Secondo Simon Hayes, economista di Barclays, le affermazioni di Cameron sono valorizzate dal quadro economico e politico del momento. Nel mentre, gli imprenditori della City, tra i quali Xavier Rolet, amministratore delegato della London Stock Exchange, John Peace, Presidente di Standard Chartered, e Paul Walsh, amministratore delegato di Diageo, hanno approvato l’idea del premier Britannico per rinegoziare un accordo di adesione con l’Unione Europea da sottoporre poi a referendum entro il 2017.

L’indipendentismo internazionale non potrà esimersi dal dibattito.

Di Roberto Melis & Adriano Bomboi.

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