I kamikaze sono partigiani? Una riflessione a dieci anni dalla strage di Nassirya
Scritto inedito per Sardegnablogger.
Durante la mia permanenza in Medio Oriente, finita la guerra israelo-libanese del 2006, fra i vari avvenimenti, a Beirut vi fu un attentato ad un convoglio diplomatico americano. L’autobomba saltò in aria al passaggio della jeep blindata. Risultato? Non c’era nessun diplomatico nel veicolo, il conducente venne ferito più dal ribaltamento del mezzo dovuto alla detonazione che dall’esplosione in se, e si contarono tre morti ed una ventina di feriti libanesi fra i passanti. Non è tutto: tre edifici rimasero seriamente danneggiati. Sapete, dopo momenti del genere rimangono solo poche cose tutto attorno: fumo, sangue, detriti, urla e sirene che si avvicinano. Un’altra delle cose che rimane sul terreno è l’intelligenza di coloro i quali in occidente spesso commentano notizie del genere, non di rado schierandosi apertamente dalla parte degli attentatori a causa delle politiche che hanno determinato la crisi di un Paese e di una precisa area geopolitica. Nella realtà, come nel caso che ho ricordato, spesso le vittime sono proprio quelle che il terrorismo si propone di “difendere”, i civili inermi e ignari. Come le povere massaie irachene che ogni mattina sfidano la sorte per comprare due pomodori al mercato. La fine può nascondersi sotto un banco della frutta, nella borsa di un passante o nel carretto di un mulo con la sua mercanzia. Immaginate i vostri cari in un contesto del genere: in caso di attentato ve la prendereste con gli americani o con chi al momento era occupato nella sua jihad? Il terrorismo, ed in particolar modo il terrorismo suicida odierno, è ben diverso da quello nipponico della seconda guerra mondiale. I piloti giapponesi si lanciavano sulle navi militari del loro nemico per causare i maggiori danni possibili. Il premio era quello di aver servito la divinità imperiale, un atto bellico verso la gloria. I kamikaze odierni non attaccano solo i militari ma anche i civili. Infatti un aspetto a cui i nostri opinion makers alla pastasciutta non badano riguarda i riflessi socio-politici interni ad un Paese che è stato oggetto di un attentato e che producono un effetto destabilizzante: una parte politica inizia ad accusare l’altra e viceversa per la regia dell’attentato (quando entrambe le parti politiche hanno influenze internazionali di segno opposto), contribuendo così ad alimentare pericolose spaccature sociali fra la popolazione e ben presto anche istituzionali. Si persegue un duplice obiettivo: se un Paese è dotato di risorse, la debolezza istituzionale consente ai Paesi che hanno promosso la destabilizzazione di introdursi nella politica del territorio, per poi partecipare alla spartizione dei beni. Se un Paese non è dotato di particolari risorse, il caos può essere funzionale alla stabilità di un regime vicino. Gli obiettivi possono anche sommarsi, come nel caso iracheno. Sia le monarchie del golfo che gli autoritarismi laico-islamici regionali non vedrebbero di buon occhio la diffusione della democrazia nella regione, poiché potrebbe causare crepe interne ai regimi. Da questo fattore ne consegue che degli avversari regionali possono addirittura ritrovarsi partecipi della medesima politica eversiva nel corso della crisi di uno specifico Paese. Quando parliamo di Nassirya (o meglio, Nasiryya), bisogna capire di cosa si sta parlando: scordatevi l’ideale della resistenza irachena che si martirizza contro l’invasore occidentale, è una favola per bambaccioni. Non c’era alcun “comitato di liberazione nazionale”. Gli attentatori della base “Maestrale” non erano locali ed agivano per conto di un network internazionale. Dei 28 morti, 9 erano iracheni. I vertici della base non avevano alcun problema con la popolazione locale ed erano note le posizioni estremiste di alcune frange. Scordatevi anche il mito della lotta antimperialista dei Paesi islamici che collaborano oltre confine contro l’invasore crociato, non si investono milioni di dollari per beneficenza, e se potreste osservare le principali Borse del Medio Oriente, notereste che nel mercato operano in stretta collaborazione sia gli interessi di Stati regionali che occidentali. Non esistono i buoni contro i cattivi. Non a caso in Iraq sauditi ed iraniani influenzano sensibilmente la politica dello Stato, al pari dell’occidente. Conclusioni: i nostri militari, Sardi inclusi, sono stati attaccati da una forza terroristica al saldo di Stati stranieri, per finalità geostrategiche di tipo politico ed economico. Di idealismo e romanticismo non c’è stato proprio nulla. Mandanti ed esecutori vanno quindi distinti, tenendo presente che spesso risulta ben difficile distinguere l’origine effettiva dei mandanti, mentre spesso salta a galla quella degli esecutori. Anche gli esecutori, per le responsabilità che gli competono, non possono essere assurti al ruolo di “partigiani”: la retorica della “lotta ai malvagi occidentali”, speculare agli interessi economici che rappresentano, è pari alla retorica della vecchia presidenza Bush nel momento in cui sosteneva la necessità di intervenire contro le armi chimiche irachene (che non esistevano), anche in quel caso gli USA agirono, non per beneficenza, ma per finalità geostrategiche di tipo politico ed economico. Questo è il mondo reale, un mondo dove una superpotenza attacca uno Stato per interesse e stimola altre potenze dell’area ad introdursi nella torta. Si può affermare che le responsabilità attuali della destabilizzazione irachena, e la lenta normalizzazione nella stabilità delle sue istituzioni, non è dovuta agli USA ma a Stati limitrofi, gli USA piuttosto hanno commesso l’errore di decapitare tutti i vertici del vecchio regime indebolendo la sovranità delle istituzioni irachene, il ché ha consentito a vari Paesi di addentrarsi nel territorio, prolungando le spese militari USA per la normalizzazione dell’area. La guerra era sbagliata? Sicuramente. Ma ai nostri soldati deve andare ogni possibile rispetto, senza mettere sullo stesso piano attentatori e vittime. I kamikaze non sono vittime di un sistema, ne sono i protagonisti finali. Le loro famiglie ricevono lauti compensi finanziari, mentre l’ideologia politico-religiosa del kamikaze trova la gloria nel momento stesso in cui innesca la detonazione mortale. Le vere vittime sono i soldati attaccati in una base che operava sotto egida ONU in base alla risoluzione n. 1483 del 2003 per aiutare il processo di stabilizzazione, e gli iracheni che si trovavano sul posto. L’osservatore occidentale dovrebbe rivedere i canoni entro i quali valuta questi avvenimenti, perché da un lato giudica come vittima un kamikaze, e ciò significa che non rispetta la frangia ideologico-religiosa che lo ha portato a compiere l’atto suicida, mentre dall’altro lo giustifica politicamente. Fatevelo dire da un libertariano: la dualizzazione di questo giudizio trascende un substrato razzista che ancora accompagna vari perbenisti occidentali, spesso di sinistra, qualche volta cattolici, e che risponde al bisogno di prendere per buona solo l’unica sfera comprensibile ai nostri standard di razionalizzazione (in questo caso quella politica, a scapito di quella integralista religiosa). Forse dovremmo rispolverare e perfezionare la lezione di Edward Said.
Adriano Bomboi.
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